Farmaco Mania

Ne assumiamo troppi e troppo spesso, ne chiediamo sempre di più e i medici, purtroppo, non solo ci assecondano ma sono anche gli artefici della «farmacomania» dilagante che stiamo vivendo, soprattutto in questa età di post-Covid.I numeri sono eloquenti: il recente rapporto Osmed dell’Agenzia italiana del farmaco (relativo al 2023) che ogni anno dà conto di quali e quante medicine vengono acquistate nel nostro Paese, parla di una spesa pubblica balzata a 24,9 miliardi di euro in un anno, con un incremento rispetto al 2022 del 5,7 per cento, e di un costo a carico dei cittadini di oltre 10 miliardi, in aumento addirittura del 7,4 per cento. I consumi arrivano a una media di quasi due medicinali al giorno per ogni italiano. Il fuoriclasse delle farmacie, verrebbe da dire il più amato dai connazionali, è il paracetamolo: la febbre rimane il primo «nemico» da combattere (anche se andrebbe contrastata solo se supera i 38 gradi e mezzo). In seconda e terza posizione due antidolorifici, l’ibuprofene e il diclofenac. Segue una benzodiazepina, lo Xanax, l’anti-ansia di questi anni complicati. E se ve lo state chiedendo, ebbene sì, tra i primi 10 farmaci più richiesti ci sono anche Viagra e Cialis, i «migliori amici» dell’uomo contro lo spauracchio della disfunzione erettile.In generale, quanto a consumi pro-capite non siamo i peggiori nel Vecchio continente, perché la media della spesa farmaceutica totale (pubblica, privata e ospedaliera) che da noi è pari a 612 euro all’anno per ogni cittadino, è inferiore a quella di Germania, Austria e Belgio. Piccola consolazione, dato che siamo comunque ben sopra i valori di Gran Bretagna, Svezia, Polonia, Portogallo e anche della media dei Paesi europei, che si ferma a 384 euro. Fin qui i numeri e le statistiche. Poi però ci sono le conseguenze di questi dati: fermo restando che i farmaci - se usati in base alle indicazioni e se correttamente prescritti dai medici - salvano le vite e sono insostituibili, quando si esagera possono rivelarsi pericolosi, soprattutto per le assunzioni prolungate. «Abbiamo creato, purtroppo, una mentalità farmaco-centrica, dove il medicinale è visto come un elisir di lunga vita» afferma Alessandro Nobili, responsabile dipartimento di Politiche per la salute dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. «Un esempio è il panico che ormai scatta al primo aumento della febbre: mi imbottisco di farmaci e magari ricorro anche agli antibiotici, contribuendo alla “resistenza” dei batteri a queste terapie, che è già un’emergenza sanitaria e lo sarà ancora di più nei prossimi anni. Davanti ai malesseri reagiamo sempre più spesso in maniera inconsulta, senza considerare che le reazioni avverse ai farmaci causano circa l’8 per cento degli accessi nei Pronto soccorso».C’è poco da scherzare, quindi: anche perché molte abitudini sono difficili da sradicare, e se anche possono apparirci se non benefiche almeno innocue, non è esattamente così. «Un esempio per tutti, i famosi “prazoli”» dice Nicola Montano, direttore della Medicina interna, immunologia e allergologia del Policlinico di Milano. «Ossia gli inibitori di pompa protonica tipicamente prescritti per una gastrite o un reflusso, e che poi non vengono più sospesi, perché la prescrizione è continuamente reiterata anche in assenza di indicazione clinica. Dobbiamo invece sottolineare che i farmaci bisogna volerli e saperli togliere, evitando che arrivino nei reparti ospedalieri pazienti, soprattutto anziani, che ne assumono anche 10-11 al giorno, diversi tra loro. Occorre fare una revisione delle terapie e operare un corretto “de-prescribing”: verificare quali sono necessari, quindi con un effetto positivo superiore al rischio, quali causano interazioni, quali vanno in competizione».C’è poi il fenomeno della «cascata prescrittiva»: non si considera mai un evento avverso come correlato a un medicinale e quindi, anziché sospenderlo, si tende a prescriverne un altro per curare quel sintomo. Che a sua volta poi genererà un ulteriore problema, in un circolo vizioso.Eppure esisterebbero strategie semplici da mettere in atto e che potrebbero arginare il problema. «In campo cardiologico, ma anche in molti altri ambiti, sarebbe opportuno un maggior ricorso alla cosiddetta “polypill”, cioè molecole in combinazione unificate in un’unica compressa» spiega Alessio La Manna, primario del reparto di Cardiologia dell’ospedale San Marco di Catania. «Ciò permette di utilizzare, per esempio nel caso delle statine, dosaggi più bassi ottimizzando il risultato e riducendo gli eventi avversi, consente una maggiore aderenza alla terapia da parte del paziente che riduce il numero di pillole da assumere e anche un risparmio notevole per il Servizio nazionale». Molta responsabilità è imputabile ai medici di base, che devono gestire sempre più pazienti, hanno meno tempo da dedicare a ognuno di loro e meno voglia di discutere o addirittura litigare quando i malati (veri o immaginari) esigono una pastiglia. E siccome ormai e

Jan 15, 2025 - 15:15
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Farmaco Mania


Ne assumiamo troppi e troppo spesso, ne chiediamo sempre di più e i medici, purtroppo, non solo ci assecondano ma sono anche gli artefici della «farmacomania» dilagante che stiamo vivendo, soprattutto in questa età di post-Covid.

I numeri sono eloquenti: il recente rapporto Osmed dell’Agenzia italiana del farmaco (relativo al 2023) che ogni anno dà conto di quali e quante medicine vengono acquistate nel nostro Paese, parla di una spesa pubblica balzata a 24,9 miliardi di euro in un anno, con un incremento rispetto al 2022 del 5,7 per cento, e di un costo a carico dei cittadini di oltre 10 miliardi, in aumento addirittura del 7,4 per cento. I consumi arrivano a una media di quasi due medicinali al giorno per ogni italiano. Il fuoriclasse delle farmacie, verrebbe da dire il più amato dai connazionali, è il paracetamolo: la febbre rimane il primo «nemico» da combattere (anche se andrebbe contrastata solo se supera i 38 gradi e mezzo). In seconda e terza posizione due antidolorifici, l’ibuprofene e il diclofenac. Segue una benzodiazepina, lo Xanax, l’anti-ansia di questi anni complicati. E se ve lo state chiedendo, ebbene sì, tra i primi 10 farmaci più richiesti ci sono anche Viagra e Cialis, i «migliori amici» dell’uomo contro lo spauracchio della disfunzione erettile.

In generale, quanto a consumi pro-capite non siamo i peggiori nel Vecchio continente, perché la media della spesa farmaceutica totale (pubblica, privata e ospedaliera) che da noi è pari a 612 euro all’anno per ogni cittadino, è inferiore a quella di Germania, Austria e Belgio. Piccola consolazione, dato che siamo comunque ben sopra i valori di Gran Bretagna, Svezia, Polonia, Portogallo e anche della media dei Paesi europei, che si ferma a 384 euro.

Fin qui i numeri e le statistiche. Poi però ci sono le conseguenze di questi dati: fermo restando che i farmaci - se usati in base alle indicazioni e se correttamente prescritti dai medici - salvano le vite e sono insostituibili, quando si esagera possono rivelarsi pericolosi, soprattutto per le assunzioni prolungate.

«Abbiamo creato, purtroppo, una mentalità farmaco-centrica, dove il medicinale è visto come un elisir di lunga vita» afferma Alessandro Nobili, responsabile dipartimento di Politiche per la salute dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. «Un esempio è il panico che ormai scatta al primo aumento della febbre: mi imbottisco di farmaci e magari ricorro anche agli antibiotici, contribuendo alla “resistenza” dei batteri a queste terapie, che è già un’emergenza sanitaria e lo sarà ancora di più nei prossimi anni. Davanti ai malesseri reagiamo sempre più spesso in maniera inconsulta, senza considerare che le reazioni avverse ai farmaci causano circa l’8 per cento degli accessi nei Pronto soccorso».

C’è poco da scherzare, quindi: anche perché molte abitudini sono difficili da sradicare, e se anche possono apparirci se non benefiche almeno innocue, non è esattamente così. «Un esempio per tutti, i famosi “prazoli”» dice Nicola Montano, direttore della Medicina interna, immunologia e allergologia del Policlinico di Milano. «Ossia gli inibitori di pompa protonica tipicamente prescritti per una gastrite o un reflusso, e che poi non vengono più sospesi, perché la prescrizione è continuamente reiterata anche in assenza di indicazione clinica. Dobbiamo invece sottolineare che i farmaci bisogna volerli e saperli togliere, evitando che arrivino nei reparti ospedalieri pazienti, soprattutto anziani, che ne assumono anche 10-11 al giorno, diversi tra loro. Occorre fare una revisione delle terapie e operare un corretto “de-prescribing”: verificare quali sono necessari, quindi con un effetto positivo superiore al rischio, quali causano interazioni, quali vanno in competizione».

C’è poi il fenomeno della «cascata prescrittiva»: non si considera mai un evento avverso come correlato a un medicinale e quindi, anziché sospenderlo, si tende a prescriverne un altro per curare quel sintomo. Che a sua volta poi genererà un ulteriore problema, in un circolo vizioso.

Eppure esisterebbero strategie semplici da mettere in atto e che potrebbero arginare il problema. «In campo cardiologico, ma anche in molti altri ambiti, sarebbe opportuno un maggior ricorso alla cosiddetta “polypill”, cioè molecole in combinazione unificate in un’unica compressa» spiega Alessio La Manna, primario del reparto di Cardiologia dell’ospedale San Marco di Catania. «Ciò permette di utilizzare, per esempio nel caso delle statine, dosaggi più bassi ottimizzando il risultato e riducendo gli eventi avversi, consente una maggiore aderenza alla terapia da parte del paziente che riduce il numero di pillole da assumere e anche un risparmio notevole per il Servizio nazionale».

Molta responsabilità è imputabile ai medici di base, che devono gestire sempre più pazienti, hanno meno tempo da dedicare a ognuno di loro e meno voglia di discutere o addirittura litigare quando i malati (veri o immaginari) esigono una pastiglia. E siccome ormai esiste «dottor Google» (si veda il servizio a pag. 14), e più o meno tutti arriviamo nell’ambulatorio medico già con la nostra diagnosi, le cose si complicano ancora di più. «Serve una strategia condivisa tra tutti gli attori del Servizio sanitario» conclude Nobili. «Il medico di famiglia deve contribuire all’educazione sanitaria dei pazienti, e lo specialista dal canto suo non può e non deve controllare solo il suo orticello, prescrivendo solo farmaci per la patologia di propria competenza senza curarsi di tutto il resto: bisogna creare équipe multidisciplinari, e coinvolgere poi il medico di medicina generale perché continui a seguire il suo assistito sul territorio».

Facile a dirsi, assai meno a farsi: soprattutto oggi, tra carenza di medici, dimissioni dei professionisti dagli ospedali, fughe all’estero e iniziative come le Case di comunità, che nella fantasia dell’ex ministro Roberto Speranza dovevano salvare e rilanciare il Sistema sanitario e invece si stanno rivelando un gigantesco flop (con un costo di più di due miliardi di euro). Infine, ci sono le pessime abitudini di tutti noi, che preferiamo la «scorciatoia» chimica piuttosto che stili di vita corretti come dieta ed esercizio fisico, e sovente ci rechiamo in farmacia solo basandoci sul passaparola: magari trovando farmacisti compiacenti che sorvolano su mancate prescrizioni, ricette «dimenticate» e scuse di vario tipo per ottenere l’agognato medicinale.

Tutto questo, ovviamente, alimenta un florido mercato, con grandi differenze regionali: i consumi più elevati si registrano in Basilicata mentre la più virtuosa è la provincia autonoma di Bolzano. Primi in Italia per consumo di antidepressivi sono i toscani, i liguri sono campioni in benzodiazepine contro l’ansia, in Campania c’è il record di anti colesterolo e anti-disfunzione erettile (sempre lei!), mentre gli anti-infiammatori FANS, usati per il dolore, vengono consumati più del doppio al Sud rispetto al Nord. Crescono poi in maniera esponenziale le richieste di semaglutide, utilizzata per perdere peso. Mentre l’Abruzzo è prima in classifica per quanto riguarda il consumo di antibiotici.

E qui si arriva alle note veramente drammatiche: circa un milione di persone muore ogni anno nel mondo a causa dell’antibiotico-resistenza, e si stima che questa cifra raddoppierà entro il 2050. Dei 33 mila decessi annui in Europa, legati a questo fenomeno, un terzo si verifica in Italia: proprio dove il 30 per cento delle prescrizioni dei medici di base, davanti a una patologia respiratoria allo stadio iniziale, riguarda questi medicinali. Pensare che abbiamo, proprio nel nostro Paese, illustri esempi di «astinenza» a lungo termine da antibiotici: il decano dei farmacologi, Silvio Garattini, fondatore nel 1963 dell’Istituto Mario Negri, che dall’alto della sua esperienza e della sua età (ha da poco compiuto 96 anni), ha di recente affermato di non far uso di antibiotici da più di 40 anni.

Il rischio globale è così alto che Dame Sally Davies - ex ufficiale medico capo dell’Inghilterra - ha messo in guardia sul periodico The Observer dal pericolo che anche le procedure di routine, come un qualsiasi intervento chirurgico, o il parto, possano comportare rischi potenzialmente letali a causa della grande diffusione di batteri ormai «immunizzati» ai principi attivi che dovrebbero sconfiggerli. Sarebbe come tornare indietro nel tempo, a un secolo fa, quando Alexander Fleming scoprì la penicillina aprendo l’era degli antibiotici. A 100 anni di distanza, l’umanità rischia di vanificare decenni di progresso scientifico. Le conseguenze sono facili da immaginare. Siamo sicuri di volerle affrontare?

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