Pax Trumpiana: che tregua che fa in Medio Oriente

Quando l’inviato di Donald Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, atterrò in Israele l’11 gennaio scorso per mediare una tregua a Gaza, era giorno di Shabbat. La consuetudine imponeva che l’immobiliarista amico del presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto aspettare la fine del giorno ebraico del riposo prima di incontrare il premier Benjamin Netanyahu ma […]

Jan 24, 2025 - 17:13
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Pax Trumpiana: che tregua che fa in Medio Oriente

Quando l’inviato di Donald Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, atterrò in Israele l’11 gennaio scorso per mediare una tregua a Gaza, era giorno di Shabbat. La consuetudine imponeva che l’immobiliarista amico del presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto aspettare la fine del giorno ebraico del riposo prima di incontrare il premier Benjamin Netanyahu ma Witkoff si rifiutò di attendere.

Quell’incontro fu decisivo: il giorno dopo infatti, a duemila chilometri di distanza, le delegazioni di Hamas e Israele tornarono a riunirsi in unico edificio a Doha, anche se a piani diversi. Nel giro di poco più di 72 ore, la spola dei diplomatici egiziani e qatarioti da un ascensore all’altro portò finalmente a un accordo, concluso soltanto dieci minuti prima della conferenza stampa in cui il premier del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, diede l’annuncio della tregua.

Può sembrare assurdo ma l’intesa che, per la seconda volta dagli attentati terroristici del 7 ottobre 2023, ha permesso di sospendere le ostilità nella Striscia e di liberare gli ostaggi, ricalca un accordo quadro raggiunto oltre un anno prima dalle parti.

Vecchie intese
«La struttura dell’intesa siglata il 15 gennaio (2025, ndr) è la stessa concordata nel dicembre 2023», spiegò due giorni dopo il premier qatariota al-Thani in un’intervista a Sky News. «Tredici mesi sprecati su dettagli negoziali che non hanno alcun significato e non valgono nessuna delle vite, ostaggi compresi, che abbiamo perso a Gaza».

L’accordo risale infatti a due settimane da quel 1° dicembre di ormai due anni fa, quando la prima tregua stabilita a Gaza, che permise la liberazione di un centinaio di ostaggi e il rilascio di oltre duecento palestinesi, crollò sotto i colpi delle accuse reciproche tra Israele e Hamas, almeno 33mila morti fa.

Eppure, tra la metà di dicembre 2023 e il 31 maggio dell’anno scorso, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Joe Biden presentò una proposta di cessate il fuoco in tre fasi che costituisce la base dell’attuale tregua, non si mosse quasi nulla. In seguito la situazione addirittura peggiorò: Tel Aviv accelerò la strategia di omicidi dei leader di Hamas e continuò con quelli di Hezbollah, procedendo il 1° ottobre anche all’invasione sistematica del Libano. Tanto che a quasi sei mesi di distanza dalla proposta di Biden, il 9 novembre, il principale mediatore, il Qatar, annunciò il ritiro dai negoziati mentre due settimane dopo gli Usa arrivarono a porre il veto a una bozza di risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato tra Israele e Hamas a Gaza proprio sulla base dell’iniziativa statunitense. Sette giorni dopo invece, il 27 novembre, arrivò la tregua in Libano, un’intesa che costituisce una sorta di prototipo per capire come si è arrivati a sospendere le ostilità anche nella Striscia e quale futuro avrà l’accordo.

Prototipo libanese
Le modalità di mediazione del cessate il fuoco con Hezbollah ricalcano infatti quelle dell’intesa raggiunta con Hamas. Anche allora la proposta era sul tavolo da mesi, precisamente dal 26 settembre precedente, quando i governi di Francia e Stati Uniti annunciarono un’iniziativa di tregua in Libano che era stata accettata anche dal segretario generale del movimento armato sciita Hassan Nasrallah, ucciso invece il giorno dopo in un raid aereo israeliano a Beirut. Così per due mesi, malgrado gli sforzi dell’inviato speciale di Joe Biden, Amos Hochstein, la guerra proseguì provocando in totale oltre quattromila morti e più di 16mila feriti.

La svolta si ebbe soltanto il 10 novembre scorso, cinque giorni dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, quando il ministro degli Affari strategici israeliano e confidente di Netanyahu, Ron Dermer, incontrò il magnate repubblicano a Mar-a-Lago, insieme al genero e padre degli Accordi di Abramo, Jared Kushner. Con una mossa del tutto irrituale infatti l’ex ambasciatore di Israele a Washington ai tempi del primo mandato di Trump si recò soltanto il giorno dopo alla Casa bianca per discutere di una possibile tregua in Libano con l’allora segretario di Stato Antony Blinken, con il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, e con gli inviati di Biden, Brett McGurk e Amos Hochstein.

Fu allora però che i negoziati conobbero un’accelerazione decisiva: Hochstein parlò di «luce in fondo al tunnel» e cominciò a coordinarsi con la nascente squadra per la transizione presidenziale di Trump. Ci vollero a quel punto ancora un paio di settimane per raggiungere un accordo, soprattutto a causa della reazione israeliana al mandato di arresto della Corte penale internazionale contro Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant. Anche in quel caso l’intesa fu approvata soltanto quasi due giorni dopo dal governo di Tel Aviv, con la contrarietà di una parte dell’estrema destra (che allora rimase nell’esecutivo). Il modello comunque era stabilito: Israele avrebbe accettato di fermarsi soltanto con il benestare di Trump.

La mossa del “pazzo”
Pochi giorni dopo, il 2 dicembre, toccò al senatore repubblicano Lindsey Graham (che a maggio scorso ventilò l’ipotesi di un bombardamento atomico su Gaza) recarsi a Mar-a-Lago alla corte del neo-presidente per sollecitare un suo intervento al fine di raggiungere una tregua nella Striscia che consentisse la liberazione degli ostaggi israeliani. Quello stesso giorno dal suo social Truth, per la prima volta, Trump promise «l’inferno in Medio Oriente» se i rapiti non fossero tornati a casa entro il giorno del suo insediamento. L’appello però non sortì effetti.

Così, dopo un altro mese di tentativi a vuoto tra Il Cairo, Doha e Gerusalemme da parte di Sullivan, McGurk e del direttore della Cia, Bill Burns, il magnate repubblicano arrivò a ripetere per ben quattro volte la stessa minaccia nella sua conferenza stampa del 7 gennaio. «Si scatenerà l’inferno in Medio Oriente e non sarà un bene per Hamas e non sarà un bene, francamente, per nessuno», assicurò il giorno dopo la certificazione della sua vittoria elettorale. «Il presidente è esasperato», commentò Witkoff, che in seguito partì per Doha, per poi recarsi l’11 gennaio in Israele da Netanyahu.

«Trump è molto serio: vuole un accordo, non rovinate le trattative», sarebbe stato il messaggio dell’inviato di Trump al primo ministro israeliano secondo una fonte informata sul colloquio citata dal portale statunitense Axios. Netanyahu, secondo la ricostruzione dell’emittente britannica Bbc, sarebbe rimasto non solo sorpreso ma addirittura intimidito dalla durezza dell’interlocutore. Soltanto allora però si sarebbe sbloccato il negoziato.

Non che poi sia andato tutto liscio: nelle 96 ore in cui Witkoff e McGurk si impegnarono insieme a pressare le delegazioni di Hamas e Israele e gli altri mediatori egiziani e qatarioti per giungere a un accordo, si arrivò più volte vicini a far saltare il banco. Ma alla fine, secondo il senatore repubblicano Lindsey Graham, prevalse la convenienza politica più che la ragione o l’umanità. «Nessuno nella regione voleva partire con il piede sbagliato con Trump», ha spiegato al portale statunitense.
«Abbiamo visto due amministrazioni Usa lavorare insieme», dichiarò poi in conferenza stampa il premier del Qatar al-Thani, annunciando la tregua. «Ciò che hanno fatto gli Stati Uniti ci ha portati a questo momento». Eppure, subito dopo l’intesa, Netanyahu ha chiamato Trump per ringraziarlo e soltanto in seguito ha sentito anche Biden. Così, come si è affrettato a fare il magnate repubblicano il 15 gennaio sul suo social Truth prima ancora dell’annuncio ufficiale, l’accordo su Gaza può essere ascritto tra i primi risultati della strategia di politica estera della nuova amministrazione statunitense. «Continueremo a promuovere la pace attraverso la forza in tutta la regione, mentre sfruttiamo lo slancio di questo cessate il fuoco per ampliare ulteriormente gli storici Accordi di Abramo», aveva commentato il presidente Usa, promettendo: «Questo è solo l’inizio per l’America e per il mondo!».

Per il suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, Robert C. O’Brien, questa “dottrina”, risalente ai tempi di Ronald Reagan e già attuata da Trump durante il suo primo mandato alla Casa bianca, si può tradurre con la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum” (letteralmente: “Se vuoi la pace, preparati alla guerra”). Per qualcuno altro invece, come Jim Sciutto, ex capo di gabinetto dell’ambasciatore americano a Pechino Gary Locke ai tempi di Obama, non si tratta altro che di una variante della “Teoria del pazzo” codificata negli anni Settanta da Richard Nixon. Prima di diventare presidente però, il magnate newyorkese la chiamava semplicemente “imprevedibilità”. «Dobbiamo essere più imprevedibili come nazione», disse nel suo primo discorso sulla politica estera durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016. Oggi invece è ben più esplicito, come lo fu a ottobre quando spiegò al Wall Street Journal il suo rapporto con il presidente cinese Xi Jinping: «Mi rispetta e sa che sono dannatamente pazzo».

Un approccio che, come spiegato da O’Brien in un editoriale su Foreign Affairs, Trump è pronto a usare di nuovo in Medio Oriente come altrove. Ma anche se stavolta ha assicurato il raggiungimento di una tregua a Gaza e prima ancora in Libano non bisogna dubitare che andrà a tutto vantaggio di Israele.

Fase due
Malgrado la perdita dell’appoggio di un alleato chiave come il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, e del suo partito Otzma Yehudit, contrari alla tregua, è innegabile che Benjamin Netanyahu emerga tra i vincitori della sanguinosa era post-7 ottobre, costata la vita ad almeno 47mila persone solo nella Striscia di Gaza, con il coinvolgimento bellico di almeno altri sette Paesi della regione. Nonostante il fallimento dovuto agli attentati di Hamas, le inaudite proteste per la contestata riforma giudiziaria, i massacri delle guerre degli ultimi 15 mesi, il mandato di arresto della Corte dell’Aja e un processo per corruzione a Gerusalemme, il premier più longevo di Israele è sopravvissuto a tutto ed è anche riuscito a distruggere (con la sola eccezione degli Houthi in Yemen) la cintura di fuoco finanziata e armata dall’Iran che da Gaza, al Libano, alla Siria e all’Iraq, gli era stata costruita intorno. Ora poi può contare pure su un alleato molto più stretto a Washington.

Nel suo primo mandato infatti, Trump riconobbe Gerusalemme come capitale di Israele e vi trasferì l’ambasciata Usa; tagliò i fondi all’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), bandita poi dallo Stato ebraico e dai Territori occupati; ritirò Washington dall’accordo sul nucleare con l’Iran, arrivando a ordinare di uccidere il comandante dei Pasdaran Qassem Soleimani in un raid a Baghdad; riconobbe la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan; e promosse gli Accordi di Abramo tra Tel Aviv ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, senza concessioni ai palestinesi. 

Basta guardare alle clausole degli accordi di cessate il fuoco in Libano e nella Striscia per capire che anche questi si inseriscono nel medesimo solco. Entrambi prevedono la possibilità per Israele di intervenire se l’altra parte non rispetta i patti. Nel Paese dei Cedri è successo più di una volta dal 27 novembre mentre a Gaza sono morte otto persone in un raid aereo compiuto da Israele la mattina stessa dell’entrata in vigore della tregua perché Hamas non aveva consegnato la lista degli ostaggi da liberare, ritardando la sospensione delle ostilità di tre ore. Nulla di preoccupante per la nuova amministrazione americana, anzi. «Lo abbiamo chiarito a Bibi Netanyahu e al suo governo – e voglio che il popolo israeliano mi ascolti forte e chiaro», ha spiegato il neo-consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Mike Waltz, al programma Face The Nation dell’emittente Cbs. «Se Hamas rinnega questo accordo e se si tira indietro, (…) sosterremo Israele nel fare ciò che deve fare».

Se la prima fase dell’accordo è la più facile, la seconda e la terza costituiranno il vero banco di prova della tregua quando, tra marzo e aprile, bisognerà discutere la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani in cambio di migliaia di detenuti palestinesi, la fine definitiva della guerra, la ricostruzione della Striscia e chi governerà Gaza. Netanyahu si è riservato di riprendere le ostilità, con l’appoggio di Washington, e il suo ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, che ha votato contro la tregua, ha già minacciato di «rovesciare il governo» se non lo farà.

Trump però sembra avere piani ben più ambiziosi. Nel suo annuncio non ufficiale dell’accordo di cessate il fuoco ha infatti citato esplicitamente l’ampliamento degli Accordi di Abramo, rivolgendosi implicitamente all’Arabia Saudita. Ma non è così facile.

Come rivelato da Bob Woodward nel suo ultimo libro “War”, quando dopo gli attentati del 7 ottobre 2023 l’allora segretario di Stato Usa Antony Blinken chiese al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman quali fossero le condizioni necessarie per normalizzare le relazioni tra Riad e Tel Aviv, il leader de facto del regno arabo rispose: «Ho bisogno di silenzio a Gaza» e «di un percorso politico chiaro per i palestinesi affinché abbiano un loro Stato». «Lo voglio? Non ha poi così tanta importanza», sottolineò il principe a Blinken. «Ne ho bisogno? Assolutamente». 

«La mia eredità di cui vado più fiero sarà quella di un pacificatore e unificatore», ha detto il presidente Usa nel suo discorso inaugurale a Washington. «Questo è ciò che voglio essere, un pacificatore e un unificatore». Ma la questione palestinese non figura nell’agenda Trump. Quando nel 2020 la sua amministrazione propose il cosiddetto “Accordo del secolo”, che permise a Israele di stabilire rapporti diplomatici con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti (che sottobanco già trattavano con Tel Aviv), il piano prevedeva la fondazione di un’entità soltanto formalmente statuale ma senza alcun diritto sovrano, che rinunciando a Gerusalemme come capitale avrebbe ricevuto il solo controllo di alcune zone della Cisgiordania, collegata a Gaza da una serie di corridoi in mano a Israele. Praticamente la visione di Netanyahu, che dovrà invece coordinarsi con la nuova amministrazione Usa per continuare la propria guerra contro l’Iran e i suoi alleati regionali. Il prossimo obiettivo dichiarato c’è già: lo Yemen degli Houthi. Altro che pace.

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