Delzio, Digital Horizon: «l’AI non è la panacea. Abbiamo bisogno di una nuova cultura manageriale»
Contrapporre intelligenza umana e artificiale non ha più senso. Lo scossone arrivato dall’irruzione della Gen AI, che consente di creare prodotti – ad esempio testi – parzialmente originali è già una rivoluzione. Quello che ci si deve aspettare è un rovesciamento dei paradigmi cui siamo abituati, soprattutto sul piano organizzativo. «A essere sostituito sarà il […] L'articolo Delzio, Digital Horizon: «l’AI non è la panacea. Abbiamo bisogno di una nuova cultura manageriale» proviene da ilBollettino.
Contrapporre intelligenza umana e artificiale non ha più senso. Lo scossone arrivato dall’irruzione della Gen AI, che consente di creare prodotti – ad esempio testi – parzialmente originali è già una rivoluzione. Quello che ci si deve aspettare è un rovesciamento dei paradigmi cui siamo abituati, soprattutto sul piano organizzativo.
«A essere sostituito sarà il modello fordista del lavoro che abbiamo utilizzato finora» spiega Francesco Delzio, Direttore del Master in Relazioni Istituzionali e Human Capital della Luiss Business School e autore del libro L’era del lavoro libero, pubblicato da Rubbettino Editore.
Cosa accadrà al classico schema occupazionale che conosciamo e applichiamo da sempre?
«Quello che si verificherà è che i tradizionali vincoli di spazio e tempo che hanno caratterizzato per secoli – dalla Rivoluzione Industriale in poi – il Mondo del lavoro verranno gradualmente meno. Quindi non ci sarà più la struttura portante, basata sul mero scambio tra un tot di ore trascorse in una postazione fisica e un salario».
Come dobbiamo immaginarci il lavoro di domani?
Il futuro sarà fatto di lavoratori che potranno sempre più organizzarsi in modo flessibile, perché saranno chiamati a produrre non più atti ma risultati. Dopodiché, sta per entrare in maniera dirompente l’intelligenza artificiale, con annesse macchine che rivoluzioneranno gran parte delle nostre attività aziendali e delle nostre professioni».
Una trasformazione che è in corso già da tempo
«L’affermazione del lavoro libero c’è stata già con la pandemia, che ha introdotto nuovi modelli di flessibilità. Ma in realtà il trend è molto più ampio e diffuso in tutto il mondo avanzato, dove ci si sta progressivamente liberando da una serie di rigidità. Il percorso è già iniziato ed è inarrestabile».
Il lavoro agile è dunque un destino già segnato?
«Sì. Dopo il grande rush della pandemia è fisiologico e normale che ci sia qualche battuta d’arresto, come ha dimostrato il caso Amazon, con la richiesta ai propri dipendenti del rientro in ufficio. Fa parte dell’essere umano nel percorso di realizzazione di nuove conquiste. Ma il trend è chiaro: capacità di auto-organizzarsi con momenti di ritrovo fisico che devono servire soprattutto a mettere in atto la formazione».
Nel libro si parla di un futuro prossimo che riserva sorprese in parte imprevedibili…
«Sì. alla fine del volume ipotizzo cosa accadrà nel 2050. La finzione è che ci si risvegli in quell’anno e si scopra come siano saltati tutti i parametri possibili del Mondo del lavoro di oggi e non esistano più grandi distinzioni tra mansioni manuali e intellettuali. La maggior parte delle prime e una parte delle seconde sono svolte da macchine intelligenti».
È davvero uno scenario che potrebbe diventare reale?
«Non siamo molto lontani. L’idea è che non esisterà neppure più una diversificazione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo e imprenditoriale. Sarà l’era del lavoro libero, dove il fulcro di tutto diventa l’autonomia organizzativa, senza vincoli di tempo e spazio».
Nel suo scritto lei parla di due diversi tipi di rivoluzione. In che modo si distinguono?
«Si può dire che ce ne sia una che procede dall’alto, ed è quella dell’intelligenza artificiale e delle scelte adottate dalle imprese. L’altra, invece, procede dal basso ed è la nuova visione dei lavoratori, in particolare i Millennial e la Generazione Zeta, che hanno un rapporto con il lavoro radicalmente diverso rispetto alle generazioni precedenti. Questo è lo scenario con il quale i direttori del personale e più in generale le grandi e medie aziende devono confrontarsi oggi».
A cambiare quindi deve essere anche la leadership?
«C’è e ci sarà sempre più bisogno di una nuova cultura manageriale. Si dice che la Gen Z non abbia voglia di lavorare, ma non è questo il punto. Semplicemente hanno altre aspettative e una nuova mappa di valori da applicare sui luoghi di lavoro. Aspirano a un migliore equilibrio vita-lavoro e cercano di trovare un senso in ciò che fanno. Per questa generazione il lavoro non è il sovrano assoluto della propria esistenza. Di questo i recruiter devono tenere conto. La classica frase “Le faremo sapere”, per decenni rivolta dall’HR Manager al giovane candidato, sempre più spesso oggi viene pronunciata dai giovani talenti, che hanno un potere contrattuale molto più forte rispetto al passato».
C’è secondo lei una sottovalutazione della tematica?
«La sfida che devono affrontare le aziende in termini di attrazione dei talenti è sicuramente presa sottogamba. Oggi è necessario dare la maggior visibilità possibile a quella che è la mission dell’azienda, anche banalmente in riferimento al proprio lavoro quotidiano, perché è a quello che guardano soprattutto i più giovani quando si approcciano a un’impresa. E anche alle modalità di lavoro, se in presenza o meno».
Ritiene ci sia un problema in tal senso?
«L’Italia sconta il prezzo di una cultura manageriale troppo incentrata sul controllo. L’idea di fondo è sempre quella che si debba avere davanti a sé fisicamente la persona. Una concezione destinata a sfaldarsi di fronte alle sfide che pone il Mercato attuale. Eppure ancora troppe aziende resistono incasellate in queste logiche. La flessibilità non può essere arginata: la Gen Z è letteralmente nata nell’oceano dei social, ragiona in modo orizzontale e ha bisogno di autonomia organizzativa. E le aziende devono offrirgliela».
Qual è il ruolo dell’intelligenza artificiale generativa in questo sconvolgimento?
«Sconquassa in modo radicale gli schemi organizzativi, sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda. La Gen AI non è ancora di massa, ma lo diventerà nel giro di tre o quattro anni, ed è allora che si potrà toccare con mano quello che adesso è solo agli inizi. Una questione di tempo, ma anche e soprattutto di costi. Le nuove tecnologie sono state e sono tuttora molto costose. Ma basterà che scendano i prezzi con il passare degli anni e anche le imprese più piccole potranno fare investimenti in tal senso».
Fa parte della schiera dei più pessimisti, e cioè di quelli che pensano che strumenti come ChatGPT ruberanno il lavoro agli umani?
«Qui è preziosa la distinzione di Umberto Eco tra apocalittici e integrati. Io faccio parte del secondo gruppo perché, come dicevamo, uno scontro frontale tra uomo e macchina non ha ragione di esistere. Non ha senso, perché nello specifico la Gen AI, come un po’ tutte le tecnologie, è solo uno straordinario potenziamento dell’intelligenza umana. La funzione delle persone resterà sempre, anche solo come supporto, ma non sarà sostituita tout court».
Solo le mansioni più ripetitive sono a rischio, quindi?
«È così, l’intervento dell’intelligenza artificiale si vedrà soprattutto sulla parte delle mansioni impiegatizie. Detto questo, anche tutto il comparto della manifattura dovrà adeguarsi se non vorrà essere scalzato dall’invecchiamento delle competenze. Ma serviranno altre figure dal valore essenziale. Parliamo per esempio di esperti di gestione dei dati che vanno dall’area Finance al Marketing. A essere messi in discussione non saranno i profili operativi puri. Si tratta di un salto umanistico, è una visione che dovranno acquisire sia i lavoratori sia le aziende. A compensare l’eventuale perdita di posti di lavoro ci sono spinte contrapposte, perché da un lato incombe la denatalità già in atto, dall’altro il fatto che le aziende sperimentano una mancanza di competenze necessarie a gestire l’Intelligenza artificiale».
Il famoso mismatch, un nodo spesso dimenticato
«Già oggi si contano circa un milione e mezzo di vacancies, perché non si trovano profili adeguati rispetto a quanto ricercato dalle imprese. Un bilancio che si aggraverà, anche perché non possiamo considerare la Gen AI come la panacea che coprirà la mancanza di personale».
Quale piano si dovrebbe attuare già da oggi?
«Una digitalizzazione di massa, ma senza dimenticare le competenze umanistiche, perché queste avranno un rinnovato ruolo strategico. Le materie STEM nella struttura in cui si presentano oggi non saranno più adeguate nei prossimi anni».
Ci potrebbe dare maggiori dettagli?
«Si svilupperà un’era in cui a mescolarsi tra loro saranno le competenze verticali matematiche e olistiche. L’intelligenza umana sarà posizionata al governo del flusso. Si tratterà in sostanza di portare ai massimi livelli la capacità di ragionamento e analisi su dati di scenario, trend in corso e bisogni del Mercato. L’intelligenza artificiale opera solo su quello che acquisisce in maniera meccanica, perché già esiste ed è nel web. L’obiettivo è quello di andare a unire i puntini».
In questo quadro, la questione dei redditi, ormai sempre più disallineati al costo della vita, potrà trovare soluzione?
«Questo è un grande tema, perché gli stipendi hanno perso negli ultimi due anni, si calcola, fino a quasi il 20% del potere d’acquisto. Io immagino che oggi ci siano le condizioni per realizzare un nuovo Patto Ciampi, come fu nel 1993. Oggi si chiamerebbe Patto Meloni tra Governo e parti sociali. L’impegno però deve venire da tutti i soggetti. Anche l’insieme delle imprese e dei sindacati possono fare molto di più presi singolarmente».
Da cosa si dovrebbe cominciare per cambiare le cose?
«Penso in particolar modo al welfare aziendale, che è un grande patrimonio del Paese per combattere la piaga della denatalità e quindi aiutare i lavoratori che hanno avuto figli oppure che desiderino averne. Attingere da lì può essere un primo passo anche in termini di rafforzamento del potere d’acquisto».
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