Cosa cambierà tra Israele e Hamas con la tregua a Gaza
Com'è nato l'accordo per la tregua fra Israele e Hamas, il ruolo degli Stati Uniti e degli Stati arabi, le prossime sfide. L'intervento di Giordana Terracina
Com’è nato l’accordo per la tregua fra Israele e Hamas, il ruolo degli Stati Uniti e degli Stati arabi, le prossime sfide. L’intervento di Giordana Terracina
La firma della tregua tra Israele e Hamas siglata in queste ore, volta al rilascio dei novantotto ostaggi ancora in mano ai terroristi e al cessate il fuoco tra le parti, pone un interrogativo di difficile risposta, vertente sulla legittimità o meno di trattare con i terroristi.
Una risposta che sta spaccando l’opinione pubblica, tra chi vorrebbe seguire la linea della fermezza e chi, invece, accoglie con soddisfazione questi primi passi verso la fine della guerra, che non vuol dire ancora pace o riconoscimento dello stato palestinese.
L’accantonamento della via militare può comportare tra le sue conseguenze un’apertura alla comprensione delle cause del terrorismo palestinese, che qualcuno ha ravvisato nell’”occupazione” da parte dello Stato ebraico dei territori contesi di Gaza e Cisgiordania e nel mancato esercizio del diritto all’autodeterminazione, arrivando fino al limite estremo di colpevolizzare Israele anche per l’eccidio del 7 ottobre 2023 e in qualche misura a giustificarlo. Come se uccidere vittime innocenti, stuprare uomini e donne, bruciare vivi bambini, possa essere considerato un mezzo per risvegliare l’attenzione internazionale sulla causa palestinese, con il pretesto che questa sia passata in secondo piano dopo la firma degli Accordi di Abramo. Questi ultimi una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Stati Uniti, firmata il 13 agosto 2020 e diretta alla normalizzazione dei rapporti politici ed economici tra gli Stati interessati e che avrebbe dovuto successivamente inglobare anche l’Arabia Saudita.
In tal modo un eccidio, perché questo è stato il 7 ottobre, rischia di assurgere al rango di giusta causa, arrivando magari a incoraggiare altri atti simili e a considerare l’uso del terrorismo come occasione per affrontare le cause profonde della questione palestinese.
Scrive Alan M. Dershowitz nel suo Terrorismo: “la storia dei progressi fatti dalle cause promosse dai terroristi, gli oneri resi ai loro leader e la cessione alle loro richieste […] sono stati importanti fattori che hanno contribuito alla recente proliferazione del terrorismo internazionale”.
Un insegnamento che ha trovato in questi giorni il suo limite nella volontà dello Stato ebraico di riportare a casa gli ostaggi, a fronte della mancanza di una forte pressione internazionale nei confronti di Hamas, per giungere a un loro rilascio.
L’accettazione dell’idea di uno scambio tra ostaggi e terroristi non deve però essere letta come un cedimento da parte di Israele o una vittoria di Hamas, quanto piuttosto come un diverso posizionamento degli Stati Uniti. Il nuovo presidente Trump insieme all’uscente Biden, coadiuvati dal Qatar e dall’Egitto, sono riusciti a costruire un cordone di sicurezza intorno alla fragile tregua, minacciando da una parte l’organizzazione terroristica di intervenire a fianco di Israele nel caso di nuovi attacchi o tentativi di riorganizzazione e dall’altra facendosi garanti della sicurezza dello Stato ebraico. Tale soluzione non avalla in nessun modo l’operato di Hamas e le sue richieste di distruzione, ma pone le basi per aprire un canale di dialogo tra le parti e per ricercare una soluzione al governo di Gaza, che abbia un respiro internazionale. Un interessamento degli altri Stati arabi presenti nella Regione, non in chiave colonialista ed eurocentrica, che permetta uno sviluppo sociale, politico ed economico dei territori contesi e che abbia come obiettivo un loro allontanamento dalle logiche del terrorismo, non permettendo ad Hamas di continuare il suo governo a Gaza.
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