“Twin Peaks”, di David Lynch, è l’autopsia di un sogno

L’impressione che si ha durante la visione di “Twin Peaks” è quella di assistere a tutti i fenomeni che la nostra mente rifiuta di manifestare esplicitamente, compresi i più inquietanti o stravaganti. Attraverso una regia che non ha pari nella serialità televisiva, Lynch ha reso fenomeno di massa un prodotto che avrebbe dovuto essere di nicchia, facendo di “Twin Peaks” l’autopsia di un sogno. L'articolo “Twin Peaks”, di David Lynch, è l’autopsia di un sogno proviene da THE VISION.

Jan 17, 2025 - 17:49
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“Twin Peaks”, di David Lynch, è l’autopsia di un sogno

Gran parte della vita è composta da ricordi che vengono rimossi dalla nostra mente. È la memoria selettiva, sono scelte inconsce del cervello che non possiamo controllare. Pur sforzandomi, non riesco a ricordare l’argomento della prima prova all’esame di maturità, così come non ho la minima idea di come fossi vestito il giorno del matrimonio di mia zia. È invece molto probabile che tutti sappiano dove, quando e con chi hanno visto per la prima volta Twin Peaks. Secondo la stessa logica spesso dimentico le date dei compleanni, ma ogni 24 febbraio ricordo all’amico con cui ho visto tutta la serie che è l’anniversario dell’ingresso dell’agente Dale Cooper nella cittadina di Twin Peaks. È come se fosse il nostro personale Natale. È stato lui a scrivermi ieri un semplice messaggio su Whatsapp: “Mattia…”. Non bisognava aggiungere altro, avevo capito. Poi ha aggiunto il link alla notizia della morte di David Lynch.

Non ho avuto il coraggio di dirgli che mi ero accordato da giorni con la redazione per scrivere un articolo su Twin Peaks, e dunque questo non sarà un coccodrillo. Certo, avrei voluto scriverlo in altre circostanze, ma parlare di un artista che ha sempre rifiutato la retorica in ogni sua opera è più facile tenendolo come guida, quel fuoco che “cammina con me” e che probabilmente continuerà a farlo per sempre. Dunque è bene partire dall’aspetto ironico e grottesco di Lynch per raccontare la genesi della serie tv più importante di sempre.

Il regista incontrò lo sceneggiatore Mark Frost nel 1986, subito dopo l’uscita di Velluto Blu, per mettere insieme qualche idea. Volevano qualcosa di diverso, un’opera che dissacrasse la vacuità degli anni Ottanta. Scrissero così insieme la prima stesura di One Saliva Bubble, che arrivò al produttore Robert Engels con questa sinossi: “La storia di una bolla elettrica che si forma in un computer e scoppia sopra la città mutando la personalità degli abitanti; ad esempio quella di cinque allevatori, che all’improvviso si credono ginnasti cinesi”. Le case di produzione declinarono nemmeno troppo gentilmente la proposta. Così Lynch e Frost decisero di studiare ciò che andava di moda in televisione in quel periodo, ovvero prodotti come Dallas e Dynasty. Arrivarono alla conclusione che nulla fosse più eccitante di destrutturare una soap opera e metterci dentro misteri, lama che sbucano dal nulla, gufi che “non sono quello che sembrano”, personaggi bizzarri e un’autorialità che la televisione non aveva mai conosciuto prima. L’emittente ABC diede il via libera al progetto, seppur terrorizzata di fronte alla follia dell’opera. La prima puntata di Twin Peaks fu trasmessa l’8 aprile del 1990, e da quel giorno nulla sarebbe più stato lo stesso.

Quello che avrebbe dovuto essere un prodotto di nicchia diventò un fenomeno di massa. La gente nei bar discuteva con trasporto cercando di darsi una risposta a una semplice domanda: “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. L’omicidio di una ragazza ritrovata avvolta in un sacco di plastica in teoria è l’evento su cui ruota tutta la vicenda della serie, ma l’abilità di Lynch lo rende quasi un MacGuffin, perché nel mentre viene costruita una galassia di personaggi e luoghi rimasta nell’immaginario collettivo. L’impressione che si ha durante la visione di Twin Peaks è quella di assistere a tutti i fenomeni che la nostra mente rifiuta di manifestare esplicitamente, compresi i più inquietanti o stravaganti. Si alternano così immagini oniriche che solleticano il nostro cervello con l’impatto simile a quello di un déjà vu, di una sensazione di cui non conosciamo con esattezza la provenienza pur riconoscendone una familiarità. Perché Bob è l’immagine dell’orrore che ci portiamo dentro, Leland è il più umano degli uomini e il male serpeggia tra le gag demenziali di teenager in quanto è ovunque. Attraverso una regia che non ha pari nella serialità televisiva, Lynch rende Twin Peaks l’autopsia di un sogno.

Già dalla prima stagione c’è un campionario di tecniche ed espedienti da cui in futuro parecchi produttori, sceneggiatori e registi di serie TV avrebbero attinto. Le musiche non sono più il sottofondo per casalinghi annoiati, ma la cadenza del mistero grazie alla colonna sonora iconica di Angelo Badalamenti; la sigla la conoscono pure i sassi – e “directed by David Lynch” con quel font è la firma di un pittore; i cliffhanger diventano funzionali e organici; gli ambienti sono studiati in maniera maniacale – il pavimento della Loggia Nera è uno dei più riconoscibili di sempre -; i personaggi non parlano in “televisionesco” ma creano una neolingua che ha dato vita a un culto, con persone che ancora oggi conoscono a menadito tutte le espressioni più stralunate della serie; il kitsch viene elevato ad arazzo della nobile arte dell’indefinito; gli spiegoni vengono sostituiti dall’esercizio dello spettatore di rimuginare, ipotizzare, creare la propria cosmogonia di un mito finito non si sa come sul piccolo schermo. Ad un certo punto i produttori decisero però di far svegliare la gente dal sogno: il colpevole dell’omicidio di Laura Palmer doveva essere rivelato, lo imponevano le regole televisive. Lynch, che quelle regole le snobbava allegramente, non accettò questo cambio d’impostazione e dopo qualche episodio mollò la serie durante la seconda stagione. Il suo motto è sempre stato: “La vita non va spiegata”. Non voleva quindi la didascalia da film giallo e preferì consegnare ad altri la sua creatura. Inutile dire che gli episodi della seconda stagione senza la sua regia siano i più deboli dell’intera serie. Tornò per il gran finale riportando il delirio artistico in un’opera che in sua assenza si stava intorpidendo. Il sogno che diventa un incubo, il male che deborda dalle cornici di uno specchio, nani ballerini, frasi al contrario: è il finale quasi perfetto di Twin Peaks. Quel “quasi” è d’obbligo perché mancava ancora un tassello per raggiungere la sublimazione: il ritorno, nel 2017, con l’ultima stagione.

Il film Fuoco cammina con me del 1992 aveva già allargato gli orizzonti artistici dell’opera, ma era necessario il medium televisivo, e quindi la terza stagione, per dar vita alla rivoluzione. Lynch avrebbe potuto confezionare un prodotto autoreferenziale per strizzare l’occhio ai fan nostalgici, riproporre la stessa formula e far felici tutti. Ma non sarebbe stato Lynch. Decise dunque di uccidere metaforicamente Twin Peaks. Pur mantenendo saldi alcuni principi, come quello del doppelgänger o l’ispirazione dei suoi pittori preferiti – su tutti Bacon, Kokoschka e Hopper -, Lynch trasforma i personaggi per dissipare l’effetto nostalgia, li relega ai margini o li ridicolizza. Il tutto per creare altro. Avrebbe dovuto partecipare anche David Bowie, già presente in Fuoco cammina con me, ma è venuto a mancare prima delle riprese. Il regista decise di non sostituirlo con un altro attore o di eliminare il personaggio, ma di sostituirlo con una teiera gigante che sputa nastri di Möbius. Tornando un attimo alla memoria selettiva, ho l’impressione che l’ottavo episodio della terza stagione rimarrà per sempre incastonato nella mente degli spettatori più del giorno della propria prima comunione. È il punto più alto mai toccato da una serie televisiva, si raggiungono stati da sindrome di Stendhal per bellezza estetica, paura, vertigine di fronte alla meraviglia e al disgusto. A livello visivo è il 2001: Odissea nello spazio delle serie tv. Con il passare degli episodi la trama inizia a confondersi con la vita stessa, con un sogno che conosciamo (ma “chi è il sognatore?”, ci chiede una Monica Bellucci in bianco e nero), con un ritorno a Oz che tutti inevitabilmente siamo costretti ad affrontare, perché è la ciclicità della vita. Così l’agente Cooper chiede in che anno siamo, Laura Palmer è viva e urla nell’eternità di fronte alla coscienza della morte. Un urlo che si appiccica addosso come quello di Janet Leigh in Pyscho o come il primal scream di Arthur Janov. Era quello che mancava per rendere Twin Peaks perfetta, una sorta di Divina Commedia televisiva dove “Inferno”, “Purgatorio” e “Paradiso” sono interscambiabili e uscire a riveder le stelle può richiedere l’annientamento di se stessi. E, per Lynch, del suo stesso capolavoro.

Probabilmente se avesse fumato qualche sigaretta in meno avremmo anche una quarta stagione, ma forse è giusto non intaccare la trinità, persino per chi è allergico al sacro. Intanto si avvicina il 24 febbraio, l’altro Natale, e forse un rewatch è doveroso. È un po’ come riavvolgere i nastri della propria vita e rivivere ogni passaggio, tra conforto e paura. Continuiamo ancora a farci domande, non sappiamo chi sia il sognatore, in quale anfratto spazio-temporale sia incastrata Laura Palmer. Forse lo stesso dove siamo intrappolati noi, il nostro doppio e gli specchi che riflettono l’esegesi di un sogno. Non sappiamo nemmeno dove sia adesso David Lynch. Anche se sfidassimo le leggi del mondo e glielo chiedessimo, lui non ce lo direbbe. La vita non va spiegata, appunto. Al massimo ci direbbe che in quel posto fanno un’ottima torta di ciliegie e un “caffè dannatamente buono”.

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