Rugby, il presidente Duodo: “Dobbiamo seminare e pensare al bilancio. Vogliamo lavorare sul rugby a 7”
Il 2024 si è chiuso con una grande novità nel rugby italiano. Le elezioni federali hanno premiato Andrea Duodo, eletto nuovo presidente della Fir, al posto di Marzio Innocenti. E il nuovo presidente si è trovato un movimento non in salute, dove c’è tanto lavoro da fare. Ma qual è la reale situazione del rugby […]
Il 2024 si è chiuso con una grande novità nel rugby italiano. Le elezioni federali hanno premiato Andrea Duodo, eletto nuovo presidente della Fir, al posto di Marzio Innocenti. E il nuovo presidente si è trovato un movimento non in salute, dove c’è tanto lavoro da fare. Ma qual è la reale situazione del rugby italiano e quali i progetti per il futuro? OA Sport lo ha chiesto al diretto interessato, che ha parlato di bilanci, rugby di base, Sei Nazioni, ma anche di rugby olimpico, spesso dimenticato dai suoi predecessori.
Presidente, sono passati quasi quattro mesi dalle elezioni. Poco tempo per rivoluzionare il rugby italiano, ma qual è il bilancio di queste prime settimane a capo della palla ovale?
“Se si parla di bilancio è un discorso molto sensibile. Abbiamo trovato una situazione che sapevamo essere abbastanza difficile, purtroppo ne abbiamo trovata una un po’ peggiore rispetto alle nostre aspettative. Ora stiamo lavorando, abbiamo un bel gruppo e ci stiamo impegnando perché la nostra prima missione è quella di equilibrare un attimo la situazione economica e finanziaria, per poi – quando riusciremo a mettere la testa fuori dall’acqua – dare seguito alle nostre progettualità. Come ho sempre detto il nostro programma è a medio/lungo termine e questo primo anno, questo primo periodo è necessario dare un’occhiata, sistemare e poi partire”.
Come ha già sottolineato uno dei temi caldi del rugby italiano è quello dei bilanci, che hanno provocato tante polemiche nelle due gestioni precedenti alla sua. Senza voler puntare il dito contro il passato, mettendo finalmente le mani sui conti Fir dove crede si debba intervenire principalmente per “tirare fuori la testa dall’acqua”?
“La prima cosa è ridurre gli sprechi, stiamo ottimizzando in tutte le aree ove è possibile farlo. Poi si deve intervenire un po’ dappertutto, iniziando dal tornare a valorizzare la struttura che abbiamo. Nell’ultimo quadriennio il potere è stato centralizzato su una sola persona, ora bisogna permettere alle persone di lavorare in maniera adeguata evitando di attingere all’esterno, come è stato fatto in passato, e facendo girare il motore dall’interno. Non è facile, perché ci siamo trovati alcuni impegni che non si possono sciogliere e che scadranno solo nel 2028. Oggi stiamo subendo le iniziative del passato, usando una metafora possiamo dire che oggi siamo come i militari italiani della campagna di Russia, abbiamo le scarpe di cartone, e speriamo di poter indossare le calzature adeguate il prima possibile”.
In Italia sempre esistano due rugby. E lo storytelling diffuso è di vederli inevitabilmente in guerra tra loro. Parliamo del cosiddetto rugby di alto livello e quello di base. Sono davvero due mondi che non possono comunicare e in contrasto tra loro, o crede si possa lavorare affinché uno cresca senza causare problemi all’altro?
“Certo. Uno dipende dall’altro, dalla punta della piramide, dove la linfa però arriva dal basso. Abbiamo una nazionale che sta cogliendo gli investimenti dal passato, ragazzi che arrivano dal sistema accademico, ma è qualcosa dove raccogli i frutti sul lungo periodo, così come abbiamo attinto da ciò che ha prodotto il movimento. Noi vogliamo tornare a investire sul movimento anche per dare una continuità al lavoro fatto. Bisogna investire su entrambi questi mondi, solidificando le basi della piramide”.
In passato, alla presentazione di ogni nuovo ct azzurro, si parlava di “progetto in vista dei prossimi Mondiali”. E i Mondiali sono stati spesso l’ultimo atto degli allenatori sulla panchina dell’Italia. Eppure, a essere onesti, la RWC può essere l’obiettivo ultimo per nazionali come gli All Blacks, il Sudafrica, l’Inghilterra o la Francia. Con Quesada avete parlato di obiettivi in ottica 2027, o vi siete posti degli obiettivi più di corto periodo?
“L’obiettivo ovviamente è sempre vincere, però è vero che non siamo gli All Blacks che possono dire ‘tra due anni abbiamo una nuova semina e vinciamo’, non possiamo permettercelo. Noi, questo Consiglio Federale, non siamo un gruppo dai facili proclami, dobbiamo guardare in prospettiva. Noi, continuando con le metafore, non abbiamo i raccolti che hanno altri, noi dobbiamo seminare tanto e raccogliere il meglio nel lungo periodo, dobbiamo avere la lungimiranza. Noi dobbiamo mettere il CT in condizione di ottenere determinati risultati. Oggi la mia preoccupazione è che negli ultimi anni non abbiamo seminato, ma non sono il tipo che dice ‘tra tre anni vinciamo il Mondiale o il Sei Nazioni’ “.
Mancano poche settimane al via del Sei Nazioni. È vero che voi non fate proclami, ma è anche vero che i pronostici non li sbagliano solo quelli che non li fanno. Come presidente Fir, ma anche come tifoso, quale vede come obiettivo nel torneo per l’Italia?
“Parlando di obiettivi, abbiamo già un obiettivo veramente impegnativo. Cioè vincere 2,5 partite, diciamola così, come l’anno scorso. Cioè confermarsi sarebbe già una grande cosa, ma l’anno scorso era quello dopo i Mondiali, quello del rinnovamento degli altri, quest’anno c’è il consolidamento delle altre squadre, perché i prossimi Mondiali sono dopodomani”.
Come OA Sport noi abbiamo un occhio di riguardo ai Giochi Olimpici. Dove il rugby si presenta nella sua versione a sette. Eppure, nonostante i tanti proclami e le tante parole, negli ultimi 15 anni almeno non si è mai passati ai fatti. Al di là della buona volontà di persone come Orazio Arancio non si è mai vista una programmazione e investimenti per almeno provare a qualificarsi. Con la sua presidenza possiamo aspettarci delle novità in questa disciplina?
“Ti dico la verità, io non mi ricordo cosa diceva Gavazzi, però ricordo bene cosa ha detto Innocenti in una sede olimpica, dove diceva che del Seven non gliene fregava, diciamo, nulla. E questo è un grosso errore. Noi dobbiamo giocare tutti i rugby possibili e immaginabili, solo giocando e valorizzando tutte le discipline possiamo crescere. È importantissimo per noi costruire un progetto che ci porti nei palcoscenici importanti, perché è lì che poi possiamo raccogliere visibilità. Noi sicuramente ci crediamo nel Seven, anche se oggi credo che potremo arrivarci prima con le donne che con gli uomini. Questo perché diciamo che tra gli uomini le risorse che abbiamo sono più o meno concentrate sul XV, noi non possiamo permetterci la progettualità della Francia che ha tolto un Dupont dal Sei Nazioni, mentre con le donne credo che sia più facile. Anche se anche qui abbiamo avuto dei problemi.
Il mio predecessore aveva già iniziato una progettualità, cercando di sposare i gruppi sportivi militari con il Seven, ma poi ce ne hanno prese 2 su 9 per i tatuaggi. Non è polemica, ma è oggettiva difficoltà a creare qualcosa. Noi comunque abbiamo la convinzione che il Seven ci possa permettere visibilità, perché è un palcoscenico che noi dobbiamo fare, anche se ricordiamo sempre che è difficile qualificarsi come europea. Hai citato Orazio Arancio e lui, va detto, in passato ha fatto un grandissimo lavoro con le poche risorse che aveva, ma in quegli anni, per fare un esempio, la Germania ha investito 1,5 milioni sul Seven e alle Olimpiadi non ci è arrivata. È complicato, ma come detto noi vogliamo programmare e lavorarci”.
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