Vi racconto le evoluzioni di Furio Colombo
Furio Colombo ricordato da Francesco Damato sul quotidiano Libero.
Furio Colombo ricordato da Francesco Damato sul quotidiano Libero
Curiosamente puntuale nelle sue sorprese, Furio Colombo cominciò ad esserlo dalla nascita, il giorno di Capodanno del 1931 a Chatillon, in valle d’Aosta. Sarebbe stato fra i più brillanti, colti ed eleganti giornalisti italiani. Ebreo e filoamericano, anzi devoto degli Stati Uniti dove ha a lungo lavorato e insegnato, dirigendo per un po’ anche l’Istituto della cultura italiana a New York, tutto avrei potuto immaginare, io che lo leggevo di frequente e lo ascoltavo e vedevo alla Rai, ma non che diventasse comunista a comunismo peraltro caduto, o forse proprio perché caduto.
Furio arrivò in Parlamento nel 1996, rimanendovi sino al 2013, col Pds e tutte le sigle successive. Dell’ultima delle quali, il Pd, cercò anche di essere il primo segretario, candidandosi però con modalità considerate irregolari da chi aveva deciso che quel posto dovesse spettare a Walter Veltroni. E lui, debbo dire, uomo di mondo, capì e si adeguò rinunciando a insistere. Non poteva d’altronde fare torto, o tentare davvero, a uno dei suoi lettori più assidui e assorbenti. Che aveva imparato proprio dai suoi articoli a conoscere e ammirare l’America e la famiglia Kennedy: Bob in particolare, fratello e ministro della Giustizia del più mitico presidente John, di cui fece la stessa fine – ucciso – mentre cercava di succedergli, peraltro non direttamente.
Ho sempre avuto un sospetto, abituato andreottianamente a ritenere che a pensare male si faccia peccato ma s’indovini. È il sospetto che Furio, anche a costo di sorprendere Gianni Agnelli, di cui era stato in qualche modo l’ambasciatore negli Stati Uniti, più ancora che il giornalista, avesse varcato il Rubicone del comunismo o post-comunismo italiano per antipatia verso Silvio Berlusconi. Che lo aveva sorpassato nelle sorprese – con tutti i mezzi e le ambizioni che aveva – improvvisando fra il 1993 e il 1994 un partito, candidandosi a presidente del Consiglio sulle macerie giudiziarie della cosiddetta prima Repubblica e vincendo le elezioni.
L’”avvocato”, come tutti chiamavamo Gianni Agnelli, compreso Berlusconi, che in più ne aveva una foto su uno dei suoi comodini, sorrise un po’ dell’avventura berlusconiana. Diceva agli amici che dei successi di Berlusconi avrebbero potuto beneficiarne anche loro, in grado tuttavia di potersi sentire estranei a un suo insuccesso. Furio invece no. Pensava che Berlusconi fosse agli antipodi del suo mondo, del suo stile, delle sue abitudini, della sua cultura. Cercare di fargli cambiare idea era semplicemente impossibile.
Sul piano o sulla strada dell’antiberlusconismo Furio scavalcò i suoi ormai compagni di partito dirigendo radicalmente anche la mitica Unità dell’ormai defunto Pci, tornata nelle edicole dopo un primo fallimento, e poi partecipando con Antonio Padellaro, che l’aveva sostituito alla direzione di quel giornale, alla fondazione del Fatto Quotidiano ora diretto da Marco Travaglio. Che due anni fa però egli decise di lasciare clamorosamente, contestando il troppo antiamericanismo da lui avvertito nel trattare, per esempio, la guerra di aggressione della Russia di Putin all’Ucraina difesa appunto dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresa l’Italia di Mario Draghi prima e di Giorgia Meloni poi.
La notizia della morte di Furio Colombo mi ha davvero rattristato. Mi era rimasto simpatico pur nelle sue sorprese non sempre condivise, a dir poco. È sempre continuata a piacermi la sua cultura, alla fine impostasi anche su di lui di fronte alla tragedia ucraina e ai suoi derivati. Ho sempre pensato negli anni della sua militanza nell’area del comunismo o post-comunismo che essa fosse un lusso esagerato, non so se più per lui o per quella parte politica. Eppure osai una volta, da direttore del Giorno, ben prima che lui mi sorprendesse politicamente, di insidiargli il ruolo che aveva negli Stati Uniti di ambasciatore della cultura italiana, oltre che della Fiat. Tentai di assumere Piero Orsellino come corrispondente del giornale e dello stesso editore di allora, l’Eni, in America. Non ci riuscii, ma per poco.
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